Mi pare serva fare un po’ d’ordine nella corrente di pensiero attuale per quanto riguarda la relazione tra uomo ed il pianeta su cui viviamo. Vale la pena ricordare che l’uomo fa parte dell’ecosistema e che gran parte del paesaggio è stato modificato in meglio da esso (leggere a proposito l’ultima ricerca su Nature circa l’effetto dell’ arrivo dell’uomo in Amazzonia).
Potare una pianta da frutto ne migliora la qualità dei frutti. Le faticose bonifiche dell’alto medioevo della pianura padana ad opera di monaci hanno portato alla sovrapproduzione di latte e quindi alla nascita del Grana padano. Oggi, molte tenute e castelli inglesi non sarebbero così curati, così ricchi di biodiversità e belli da visitare se l’uomo non fosse intervenuto con la sua mano. Lasciati da soli, questi luoghi diventerebbero presto più poveri e inospitali. Leggo dal libro degli anni Novanta (Whitehead, F. H. and N. Rizzoli (1993). Ecologia pratica applicata alla conservazione della natura, Edagricole-Edizione Agricole.) che dal secondo dopoguerra si credeva che lasciare la natura da sola fosse il metodo più giusto per aiutarne la preservazione. Questa visione, si diceva già trent’anni fa, è ormai superata e si riconosce all’uomo la facoltà di interagire con essa per aumentarne la biodiversità e curarne lo sviluppo.
Anche nel nostro piccolo, il parco del Casvegno, OSC a Mendrisio è una vera benedizione per tutti ma se si trascurasse la sua cura silenziosamente operata da frotte di operatori, giardinieri, personale di servizio, diventerebbe presto un’area da incubo con piante centenarie alloctone che cadrebbero una dopo l’altra. Ai giorni nostri, dove anche una ragazzina riesce ad attirare seguiti enormi attraverso social e mass-media, pare che il senso comune sia di nuovo scivolato verso la direzione di una natura che sappia autoregolarsi da sola senza l’uomo, divenuto suo nemico. Ma occorre ricordare che siamo invece parte integrante dell’ecosistema e che se creiamo dei probloemi in buona o cattiva fede, siamo chiamati a trovare delle soluzioni che mai come oggi, dice David Attenbourough, novantenne naturalista della BBC coetaneo della regina Elisabetta, sono possibili in così grande numero ed efficacia. Un po’ di positività noi guasta mai.
Ricordo anche quando alla fine degli anni ’80, incontrai al bosco Penz di Chiasso un gruppo di persone ben intenzionate che vi avevano organizzato una passeggiata “per l’ambiente” e che asserivano la necessità di non tagliare gli alberi anche a Chiaso perché il bosco ne avrebbe sofferto. Timidamente osservai che in realtà in Svizzera il bosco stava crescendo da anni e anche male, e che invece bisognava farlo perché non era più curato come una volta e che ciò comportava anche pericoli di “dissesto idrogeologico” ( cioé dilavamento disordinato della superficie). Pensavano alle grandi foreste pluviali e tropicali che già in quegli anni si sapeva disboscate a favore del profitto a corto termine e di riflesso avevano capito che anche il nostro piccolo bosco locale stese soffrendo allo stesso modo.
Ed ecco il vero problema. Il profitto, il denaro a corto termine e la cattiva distribuzione della ricchezza, le disparità salariali tra un aparte e l’altra del mondo. In sintesi, la povertà che lascia senza possibilità di scelta molte persone se non di distruggere l’ambiente dove vivono per una lotta di sopravvivenza all’ultimo termine.